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Mindfulness in un libro per bambini e genitori

Tra i libri sulla mindfulness Calmo e attento come una ranocchia, scritto da Eline Snel, mi ha subito colpito per la sua copertina che ha un’immagine graziosa e divertente, dai colori tenui e le linee tondeggianti.

I brevi capitoli presentano il giusto equilibrio tra parole e disegni. Le pagine scorrono veloci in un linguaggio semplice e mai ridondante. Ogni frase nella sua essenzialità contiene informazioni utili senza appesantire la lettura.

L’argomento trattato è la mindfulness, ossia la meditazione, a portata di bambino. Gli esercizi, contenuti nel cd in dotazione col libro, partono dai 5 anni in su e sulla parte interna della copertina è indicata l’età adatta ad ogni esercizio.

Io lavoro con gli adulti ma ho deciso di comprare questo libro, che in fondo è dedicato anche ai genitori, perchè ero curiosa di leggere come l’autrice proponesse la meditazione ai bambini. Mi sono ritrovata in alcuni suggerimenti dati e ho preso spunto per altri che ho trovato facili da utilizzare con la mia bambina (6 anni).

Io e la mia bambina abbiamo per esempio ascoltato la meditazione della piccola ranocchia (5-12 anni) e devo dire che è riuscita a seguire fino a pochi secondi prima della fine della registrazione. L’essere come una ranocchia che gonfia la pancia e osserva immobile quel che accade è una metafora che ogni tanto riprendiamo un po’ per scherzo e un po’ per davvero. Ci fa sorridere ma in effetti in quelle occasioni la mia bambina si ferma e respira usando il diaframma, per cui l’immagine della ranocchia le è risultata funzionale ad assumere una modalità mindfulness.

La frase che più mi è rimasta impressa è non ci sono pensieri, nella pancia, solo il respiro. Ed in effetti quando la mia bambina ha una reazione non controllata ed esagerata ad un pensiero o un’ emozione disturbante, tipo urlare o lanciare oggetti, di solito le chiedo di fermarsi e mandare l’aria nella pancia, aspettiamo qualche respiro e riprendiamo più calme a districare la situazione. L’attenzione al respiro che scende in pancia permette di ri-centrarsi lasciando perdere pensieri e emozioni che ci ingarbugliano e ci lascia la libertà di decidere cosa è opportuno fare o non fare.

Un’altra parte che ho molto apprezzato è stata quella dedicata alle immagini mentali sui desideri che abbiamo. Le immagini infatti aprono la strada al cambiamento. Potrebbe cambiare il nostro atteggiamento verso la situazione che viviamo o potrebbe cambiare la situazione. Di base è importante il fatto che qualcosa possa cambiare. Serve pazienza, fiducia e saper lasciare andare. Lasciare andare che le cose non vadano necessariamente come vogliamo ma che comunque possano cambiare.

Infine il capitolo sulla gentilezza è un riferimento a qualcosa che nei comportamenti umani, sia verso sé che gli altri, spesso manca ma che è fondamentale recuperare per porsi in una condizione di apertura, calma e benessere.

Consiglio il libro a tutti quei genitori che vogliono trasmettere al loro bambino piccoli e semplici comportamenti utili a gestire il proprio rapporto con le emozioni e i pensieri più o meno sgradevoli fin da subito.

Lo consiglio anche a chi non ha bambini perché penso che le cose più semplici in realtà siano le più solide ed efficaci, per cui fare gli esercizi proposti può essere molto utile a ogni età.

Rimuginio: adesso basta!

A volte ci sono pensieri che ci girano in testa per ore assorbendo la nostra energia e il nostro tempo. Letteralmente: ci sfiniscono.

Ne faremmo volentieri a meno, anzi sappiamo benissimo che per la nostra salute mentale dovremmo smettere di farli rimbalzare da una parte all’altra della mente. Eppure non riusciamo a farne a meno. Rimangono attaccati come fastidiosa gomma da masticare alla suola della scarpa e trattengono la nostra vitalità. Limitano le nostre potenzialità.

È un vero e proprio rimanere incastrati in piani temporali e dimensioni dell’essere che tutto sono meno che la realtà presente. Eppure noi siamo solo questo: il nostro presente. Il presente racchiude l’eco del passato e il sentore del futuro, ma rimane uno schietto qui ed ora che è talmente elementare da diventare a volte difficile da realizzare.

So cosa vuol dire quando qualcuno mi dice “non riesco a smettere di pensarci!”. Lo so davvero, sia come terapeuta perché vedo la sofferenza che il rimuginio con la sua insistenza produce nelle persone, sia come persona. La mente è sopravvissuta grazie alla sua abilità di risolvere problemi per cui se ne vede uno all’orizzonte in automatico ci si fionda sopra come un condor sulla sua preda. Sono orgogliosa di avere una mente che fa quello che ha permesso alla specie umana di arrivare a oggi attraverso secoli di storia, ma preferisco che questo suo servizio si limiti a situazioni davvero a rischio e che invece lasci le persone focalizzate sul loro presente per il resto del tempo.

Ci sono varie tecniche usate proprio per aiutare la mente a lasciar perdere il suo giro in giostra sul quel folle treno del rimuginio. Ogni persona può trovare quella più adatta a sé, per questo è importante provarne un po’ per vedere con quale ci si sente più a proprio agio e quale dunque risulta più utile per sè.

Ecco una tecnica che trovo efficace e che spesso consiglio:

  • quando ci rendiamo conto che la nostra testa è presa all’amo da una serie infinita di pensieri, che sono sempre gli stessi e non si risolvono mai, quando dunque ci accorgiamo che non siamo connessi col momento presente ma persi in una dimensione spazio-tempo che non è reale,
  • dobbiamo smettere di fare quello che stiamo facendo es. camminare, cucinare, ecc.
  • e, magari chiudendo gli occhi per concentrarci meglio, passiamo al prestar attenzione a quello che le nostre orecchie captano dall’ambiente circostante: notiamo i suoni più forti, quelli di sottofondo, quelli di tonalità intermedia, quelli che smettono di esserci, quelli che sentiamo ma prima non c’erano, quelli che si modificano o rimangono sempre uguali, ecc.

Questo esercizio ci permette di rifocalizzare l’attenzione sul presente, cioè su tutto quello che una persona ha davvero. Aiuta a spezzare le catene del rimuginio. Aiuta a farci scendere dalla nuvola dei pensieri infiniti. È una forma di meditazione perché promuove la consapevolezza nel qui e ora. Può essere eseguito come esercizio a sé in qualsiasi momento.

Per andare al lavoro di solito costeggio a piedi un parco e mi capita spesso di fermarmi concentrandomi sui suoni. Ho notato che, facendolo, se ho tensioni fisiche di solito si allentano e mi viene quasi automatico accennare un sorriso. Il sorriso potrebbe essere legato a una forma di rilassamento della muscolatura facciale oppure potrebbe essere collegato alla simpatia che mi ispira il canto degli uccellini. Alcuni, va detto, sono delle prime donne assolute ma il loro verso è il la per una sintonia che dall’udito coinvolge gli altri sensi fino a trasportarmi alla consapevolezza di trovarmi dove devo essere, nel modo in cui sono e che va bene così.

Ps.: la foto pubblicata con il post è evidentemente di scarsa qualità perchè l’ho fatta col telefono mentre camminavo una mattina di febbraio. Mi è sembrato di un’incredibile bellezza il filtrare del sole tra gli alberi dopo tanti giorni di grigio invernale. Immergersi nel qui ed ora permette di cogliere momenti magici che una testa sovrappensiero perde immancabilmente.

EMDR: la teoria alla base dell’EMDR

L’ Eye Movement Desensitization and Reprocessing (EMDR) nasce con il lavoro di Francine Shapiro nel 1987 sulla base teorica dell’ Adaptive Information Processing (AIP).

L’AIP lega la patologia a ricordi di esperienze traumatiche non elaborati.

In questa prospettiva i sintomi sono dovuti all’attivazione di ricordi non elaborati.

Durante un’esperienza traumatica le risposte biochimiche legate per esempio all’attivazione dell’asse ipofisi-ipotalamo-surrene bloccherebbero il naturale processo di elaborazione dell’informazione (AIP). Accade dunque che sensazioni, immagini, emozioni, convinzioni legate a quell’esperienza si fissino in memoria in modo isolato rispetto le altre reti neurali. Quando poi uno stimolo attiva il contenuto di quella rete isolata, le informazioni non elaborate si ripropongono con la stessa intensità con cui sono state registrate ossia drammaticamente traumatica. È così il passato diventa presente.

Con l’EMDR , una vota entrati nella rete mnestica di un ricordo non elaborato, si utilizzano i movimenti alternati degli occhi per desensibilizzare il ricordo traumatico nelle sue componenti (cognitiva, immaginativa, emotiva, somatica) e per consentirne una riscrittura più funzionale. Il ricordo passa dall’essere isolato all’essere integrato con informazioni di altre reti neurali, ossia elaborato. Questo fa sì che quando qualcosa attiva il contenuto di quel ricordo le emozioni connesse risultino attutite dal tempo intercorso, le immagini meno vivide e graffianti, le sensazioni fisiche archiviate e le cognizioni depurate da acquisizioni successive. Il lavoro EMDR cambia l’esperienza da emotiva a cognitiva.

Ci sono evidenze empiriche di cambiamenti neurofisiologici e biologici in seguito a un intervento con EMDR.

Trattamento efficace per il Disturbo post Traumatico da Stress, l’EMDR viene con successo utilizzato anche nel caso di eventi di vita stressanti che stanno alla base di varie situazioni patologiche come depressione, disturbi d’ansia, disturbi alimentari, dipendenza, ecc.

Inoltre studi fatti sullo stress affermano che eventi di vita stressanti abbiano effetti nocivi sul sistema immunitario prendendo parte all’insorgenza o decorso delle malattie oncologiche, dunque l’EMDR risulta utile anche in situazioni di diagnosi oncologica. Liberare la mente dalla sofferenza di esperienze negative e potenziare invece quelle positive permette ai pazienti di mettere in gioco energie utili nel fronteggiare la malattia. Nel caso di situazioni terminali invece permette ricostruire un senso mancato e raggiungere uno stato di serenità e compiutezza.

EMDR: dare un senso con l’EMDR

Quando ci feriamo le piastrine si mettono all’opera per far sì che il sangue coaguli e il taglio diventi ferita, ferita che coi giorni si trasforma fino a scomparire. Il nostro corpo è programmato per andare nella direzione dello star bene. Il corpo ha un naturale istinto di guarigione.

La nostra mente non è da meno. Anche in lei c’è un naturale processo di elaborazione dei dati che le consente di digerire anche informazioni indigeste, forti, angoscianti, paurose e di cui farebbe volentieri a meno. Possono però accadere eventi particolarmente traumatici o stressanti che bloccano questo naturale processo di elaborazione. L’EMDR aiuta a farlo ripartire.

Quando un ricordo traumatico non viene elaborato si può rimanere prigionieri di alcuni suoi elementi che continuano a rimbalzare nella mente e nel corpo alla ricerca di un senso: perché mi da fastidio questo odore? Perché non sopporto quella vista? Perché devo obbedire a questa regola?

In un qualche dove nella mente esiste la risposta ma è isolato rispetto la parte consapevole e razionale della mente perché chiuso in memorie non elaborate. L’EMDR raggiunge le memorie non elaborate e le libera affinché possano arrivare ai centri di elaborazione cognitiva con lo scopo di integrare nella consapevolezza ciò che prima era un non-senso.

L’uomo non è fatto per i non-senso: ogni gesto, ogni esperienza, ogni sogno deve rimandare a un disegno di fondo che alimenta il valore dell’esistenza stessa. Il non-senso da fastidio alla mente naturalmente tesa verso lo star bene ossia l’equilibrio.

Purtroppo nascere umani comporta anche nascere con una quota di dolore che definiremmo ingiusto ma che fa parte della natura dell’uomo e per questo primario. Il solo fatto di esser figli ci espone alla alta probabilità di vivere il lutto dei nostri genitori, il fatto di avere una natura fallibile ci espone alla probabilità di contrarre malattie.

La mente e il corpo sono programmati per affrontare il dolore insito nella natura umana. Ma spesso vivere esperienze così cariche di sofferenza diventa impossibile quando la nostra mente e il nostro corpo hanno accumulato nel tempo blocchi della loro naturale tendenza alla guarigione. L’EMDR permette di tornare indietro e sciogliere quello che è rimasto impigliato e che non fa fluire ciò che viene dopo, riscrive le memorie per dare alla persona le risorse utili ad affrontare la difficoltà del momento.

Recupera un senso da ciò che è passato per concedere la forza di fronteggiare il presente.

Posto al Sicuro: una tecnica immaginativa nel proprio kit dello star bene

Notoriamente la vita non fa sconti quando si parla di difficoltà, inoltre più il tempo passa e più le cose si complicano.

Siamo esseri umani e in quanto tali esposti a traumi più o meno gravi, sofferenze più o meno sentite, ostacoli più o meno alti.

Per questo ognuno di noi dovrebbe metaforicamente crearsi un kit dove tenere tutti i modi e le tecniche che sa essergli utili a farlo tornare a uno stato di calma. A me piace chiamarlo kit dello star bene anche se ci sono situazioni in cui anche solo recuperare la capacità di respirare regolarmente è quanto di più si può chiedere.

Io stessa ho allestito il mio personale kit che ovviamente è in continua revisione, infatti qualche modalità può smettere di funzionare e venir lasciata in disparte oppure nuove modalità si possono aggiungere.

In psicoterapia il kit dello star bene è una delle cose su cui si cerca di lavorare per poterselo poi ritrovare come risorsa durante il percorso.

Cosa mettere in questo kit? Il contenuto è altamente soggettivo ed è tutto quello che ci può riavvicinare a uno stato di calma e tranquillità, ossia che ci fa star bene, per esempio: un oggetto che ci ricorda un momento felice, una canzone, un’attività come il disegnare o cucinare, ecc. Ovviamente quando ragioniamo su cosa ci fa stare bene dobbiamo evitare soluzioni nocive nel medio-lungo tempo, per esempio se la cioccolata mi fa stare bene e ne mangio un chilo al giorno la mia salute ne risentirà.

Tra le tecniche che possiamo mettere nel kit c’è il Posto al Sicuro.

Il posto al sicuro viene usato in vari approcci terapeutici.

E’una tecnica immaginativa, per alcuni all’inizio risulta più difficile da usare che per altri ma come per le altre attività con la pratica diventa agevolmente accessibile.

Per il suo apprendimento serve fare pratica in un luogo tranquillo ma una volta acquisita la possiamo usare ovunque proprio perché è a livello di immagini: in fila alla cassa del supermercato, sull’autobus, al ristorante, ecc.

Come fare?

  • Sediamoci in una stanza dove possiamo prenderci qualche minuto di tranquillità.
  • Concentriamoci sul nostro respiro in modo da portarlo a un ritmo calmo e regolare.
  • Pensiamo poi a un posto reale o di fantasia che ci trasmetta una sensazione di calma e tranquillità, nel quale ci sentiamo al sicuro.
  • A questo punto cerchiamo di percepirlo concentrandoci su più canali sensoriali: quello che vediamo, quello che sentiamo a livello tattile, quello che udiamo, quello che odoriamo.
  • Soprattutto dobbiamo prestare attenzione e sentire la sensazione di sicurezza.

Più riusciamo ad arricchire a livello di percezioni il nostro luogo al sicuro più riusciamo a farlo nostro. Non è un qualcosa di immediato ma l’esercizio ci permette di renderlo tale.

A questo punto ogni volta che saremo agitati o avremo bisogno di una pausa dalla tensione quotidiana potremo richiamare l’immagine del nostro posto al sicuro e questo potrà aiutare il corpo e la mente a calmarsi.

In generale si deve ricordare che nessuna risorsa è in assoluto e sempre utile e funzionante. Infatti ci sono momenti in cui una determinata risorsa funziona, altri in cui è utile venga integrata con altre risorse, altri ancora in cui pare inefficace. Le persone cambiano, con loro cambia il loro funzionamento e quello che le fa star bene. Per  questo il contenuto del nostro personale kit dello star bene va continuamente aggiornato.

 

Depressione Maggiore: il modello metacognitivo indica la ruminazione come uno dei principali fattori del disturbo stesso

Secondo il modello metacognitivo di A. Wells del Disturbo Depressivo Maggiore le credenze circa l’utilità della ruminazione (es. pensare alle cause della tristezza mi aiuterà a capirla, pensare a come sto male mi aiuterà a capire come sono arrivato a questo punto) sarebbero le responsabili del mantenimento del disturbo stesso.

Nel modello di Wells della Depressione Maggiore la ruminazione si attiva in seguito ad un pensiero negativo su di sé per es. sono grasso, oppure un’ emozione come la tristezza o un ricordo spiacevole (stimolo attivante). La ruminazione è caratterizzata dalla ripetizione di pensieri volti a capire il perché della tristezza e a gestire pensieri e emozioni disturbanti. Si tratta di una strategia di coping volontaria che diventa tanto familiare da risultare inconsapevole per cui la persona che rumina può non rendersi ormai più conto di essere nuovamente all’interno di un vortice di pensieri tutt’altro che utili. Anche il rimuginio può avere la sua parte nel mantenimento del disturbo ma a differenza della ruminazione si concentra più sul come anticipare e evitare il pericolo. Entrambe queste strategie utilizzate per fronteggiare pensieri e emozioni disturbanti sono disfunzionali.

Infatti la ruminazione rende più intensi i sintomi depressivi creando inoltre la percezione di non controllo sul disturbo stesso (es. non ho più controllo sulla mia mente, posso solo aspettare che passi, sono imperfetto).

In tutto questo l’evitamento delle attività e dei rapporti sociali finalizzato ad avere più tempo per ruminare non migliora il quadro, così come non aiuta l’uso di sostanze o atti autolesionistici messi in atto per fronteggiare il basso stato dell’umore.

Dunque il trattamento della depressione Maggiore che segua questo modello metacognivo ha tra i suoi passaggi fondamentali quello di

  • modificare le credenze circa l’utilità della ruminazione (es. aiuta ad avere un umore più alto? Si sta meglio dopo aver ruminato ore?)
  • aumentare la consapevolezza su fatto di ruminare
  • e una volta presone coscienza impegnarsi in attività concrete più in linea con i valori della vita del soggetto o comunque maggiormente utili per migliorare la sua qualità di vita.

Emozioni e pensieri dolorosi: un aiuto per uscirne dall’ Acceptance and Commitment Therapy

Capita che la vita ci ponga di fronte situazioni difficili (es. un lutto, una malattia, un abbandono, un licenziamento, una critica, ecc.) in cui vediamo aumentare lo scarto tra ciò che vorremmo e ciò che invece è. Più tale scarto è ampio, più è il dolore provato.

In generale le situazioni difficili innescano una reazione di lotta o fuga. Nel primo caso si è in preda alla rabbia e emozioni a lei vicine (come la frustrazione, il disprezzo, ecc.) , nel secondo caso si è in preda alla paura e emozioni a lei vicine (come l’incertezza, la preoccupazione, ecc.) .

Se poi ci riteniamo responsabili in qualche misura di quel che stiamo vivendo allora emerge anche il senso di colpa.

In definitiva il magma emotivo che ci investe dopo un evento più o meno traumatico ci trasforma in barche in balia della tempesta e la percezione spesso è quella di chi sta per essere inghiottito dalle onde. Come scrive Russ Harris nel libro Se il mondo ti crolla addosso riprendendo la teoria dell’ACT, questo è il momento in cui occorre fermarsi e osservare come spettatori le emozioni in circolo, defondersi da esse lasciando loro la fluidità di scorrere. Si tratta in definitiva di calare l’ancora e connettersi al momento presente. A questo scopo Harris propone il seguente esercizio:

  • premi forte i piedi sul pavimento e raddrizza la colonna vertebrale
  • nel far questo fai un respiro lento e profondo
  • guardati attorno e nota cinque cose che vedi
  • ascolta attentamente e nota cinque cose che senti
  • nota dove sei e cosa stai facendo

Questo esercizio richiede qualche secondo e permette di tornare al presente riducendo via via la forza d’urto di pensieri e emozioni dolorose.

Per esempio tutti quei pensieri che implicano un riferimento al non essere abbastanza spesso hanno il potere di spedirci nel mezzo di una cortina psicologica fumosa e destabilizzante (es. non sono abbastanza ricco, non sono abbastanza magro, non sono abbastanza intelligente) e sono correlati da emozioni spiacevoli come l’invidia, la gelosia, il senso di inferiorità, ecc.

Nei momenti in cui pensieri e emozioni dolorose ci assalgono è utile fermarsi, riconoscere e dare un nome alla storia che raccontano e riconnettersi al presente e, poiché le emozioni dolorose a cui occorre dare spazio fanno fisicamente male, è necessario avere un atteggiamento compassionevole verso se stessi.

Depressione post parto: fattori che ne contribuiscono lo sviluppo e conseguenze

Da ricerche epidemiologiche sappiamo che la depressione post parto nei paesi occidentali colpisce il 10-15% delle mamme. In genere si sviluppa entro 3 mesi dal parto ma può farlo anche dopo 6-8 mesi. Non è legata all’ ordine delle nascite cioè una mamma al secondo parto potrebbe sviluppare la depressione post parto pur non avendola avuta dopo il primo parto.

Rispetto la depressione maggiore si manifesta in un periodo di tempo specifico dopo il parto, dura di più e i sintomi seppur simili a quelli della depressione maggiore sono più disabilitanti.

La depressione post parto è poi diversa dal baby blues. Per baby blues si intende quel periodo legato ai cambiamenti ormonali che avvengono dopo il parto e che va dai 3-4 giorni dal parto in cui la mamma si sente triste, irritabile, tendente al pianto. Avviene nel 70-80% delle mamme e si risolve spontaneamente nel giro di pochi giorni.

Ed è diversa anche dalla psicosi post parto che colpisce una donna su mille, insorge entro sei settimane dal parto e è caratterizzata da significativo distacco dalla realtà (deliri e allucinazioni) e alterazioni gravi dell’umore e del comportamento.

Poiché per fare diagnosi di depressione devono essere soddisfatti alcuni criteri circa i sintomi e i tempi in cui si manifestano, serve il giudizio di uno specialista. Alcuni sintomi caratteristi dello stato depressivo sono: umore basso, perdita di interesse per attività che prima lo suscitavano, difficoltà di concentrazione, sensi di colpa, pensieri negativi su di sé, cambiamenti nell’ appetito, nel sonno e nell’attività psicomotoria (aumento o diminuzione), riduzione dell’ energia, aumento della stanchezza, pensieri negativi fino a pensieri di morte. Altri sintomi possono essere l’irritabilità, la facilità al pianto, diminuzione del desiderio sessuale, perdita del sorriso, problemi psicosomatici come difficoltà di digestione, mal di testa, ecc., ansia preoccupazioni, tendenza a pensare al peggio. Pensieri relativi al suicidio indicano grande e grave sofferenza per cui la persona non dovrebbe mai essere lasciata sola e seguita da figure competenti.

Quali sono le possibili cause della depressione?

  • cause biologiche: nelle persone depresse sono stati registrati cambiamenti della regolazione di sostanze come la serotonina e noradrenalina ma anche di alcuni ormoni e del sistema immunitario
  • cause genetiche: parenti di primo grado di una persona depressa ricevono geneticamente una predisposizione a sviluppare depressione
  • cause psicosociali: caratteristiche personali come l’avere una bassa autostima, un atteggiamento negativo e di sfiducia verso se stessi e le proprie capacità favoriscono lo sviluppo della depressione. Così come sono fattori di rischio cambiamenti di salute (malattie proprie o delle persone vicine), cambiamenti lavorativi (licenziamenti, promozioni, proprie o del partner, perdite di denaro) e cambiamenti familiari (divorzio, morte di un parente o un animale , traslochi, nuove nascite, ecc.).

Mentre i fattori che contribuiscono allo sviluppo della depressione post parto posso essere:

  • fattori che riguardano la famiglia e l’ambiente socio-culturale di appartenenza: predisposizione genetica, infanzia difficile, abusi, status socio-economico basso, mancanza di sostegno sociale, sostegnofamiliare e del partner, eccessivo carico di lavoro
  • fattori che riguardano gravidanza e il rapporto con il bambino: se la gravidanza è stata voluta o meno, andamento della gravidanza, nascita prematura, problemi di salute del bambino, aspettative disattese circa sesso e personalità del bambino
  • fattori che riguardano la personalità della mamma: non accettazione del cambio di ruolo da lavoratrice a casalinga, personalità rigida, con necessità di controllo e ordine, disillusione circa false idee trasmesse culturalmente dalla società es. bisogna essere felici di essere mamme (ma anche le mamme provano tristezza), essere mamma è bello (ma è anche difficile e frustrante), ecc.

Le conseguenze della depressione post parto possono riversarsi non solo sulla mamma ma anche sulla sua relazione mamma-bambino e sulla relazione mamma-partner.

Nel primo caso la mamma fatica a prendersi cura del bambino non favorendone un adeguato sviluppo cognitivo, emotivo e sociale. Nel secondo la mamma non riesce a partecipare alla relazione col partner in modo equilibrato, anzi tende a percepirne le mancanze rispetto le necessità crescenti all’interno del nucleo familiare con conseguenti litigi.

Per quanto riguarda le possibili terapie ogni caso deve essere adeguatamente valutato dallo specialista. In linea generale per depressioni di lieve e moderata intensità si può seguire un percorso di psicoterapia cognitivo-comportamentale  che nelle forme più gravi viene associata alla farmacoterapia. Infatti la psicoterapia cognitiva comportamentale è risultata efficace nel trattamento della depressione post parto.

Compassione: il primo passo per recuperare il benessere interiore

Capita a tutti nella vita di avere almeno una volta la percezione che la vita stessa ci stia prendendo a bastonate. Di bastonate ce ne sono di varia natura e intensità: una malattia grave, un incidente, un licenziamento, un divorzio, un crollo finanziario, un litigio, una critica, ecc e tutte sono accomunate dal fatto che aumentano il divario tra ciò che è e ciò che vorremmo che fosse. Purtroppo tanto più è ampio questo divario tanto più è il dolore che proviamo.

Secondo l’ACT uno degli elementi fondamentali per recuperare l’appagamento interiore, cioè un senso di pace nonostante tutto, è la compassione.
La compassione così come la descrive Russ Harris, importante esponente dell’ACT, è costituita da:
– essere gentili verso se stessi
– essere presenti con il proprio dolore.
Essere gentili con sè è importante proprio perché è nel momento del dolore che abbiamo bisogno di sentirci accolti, sostenuti, aiutati e noi siamo i primi ad essere sempre presenti nei nostri momenti di difficoltà, a poter immedesimarci immediatamente con noi e a sapere esattamente il dolore che proviamo.
La presenza invece riduce la portata delle emozioni dolorose.
Come ci riesce? Attraverso connessione, defusione e espansione (o accettazione).
Ci sono momenti in cui pensieri inutili es. non sono abbastanza, sono un fallito, sono brutto, sono solo ecc. ci avvolgono come una nube di fumo e ci fondiamo talmente tanto con essi da sembrarci la realtà piuttosto che semplicemente parole e immagini. Ecco: il problema non sono i pensieri ma come reagiamo ad essi. Nel momento in cui viviamo in una nube di pensieri inutili dobbiamo fermarci, notarli per quello che sono e dare un nome alla storia che raccontano es. è la solita storia del figlio imperfetto, è la solita storia del brutto anatroccolo, eccoci ancora con la storia del fallito totale, ecc. Possiamo anche neutralizzare questi pensieri ponendoli in contesti che ci permettono di vederli o sentirli e finalmente scoprirli per quello che sono: solo parole e immagini. Ad esempio possiamo scriverli o immaginarli proiettati su uno schermo, possiamo cantarli modificando la voce e il ritmo. Mettere i pensieri in contesti diversi ne riduce il potere su di noi.
Infine viene l’espansione ossia il far spazio alle emozioni che non vorremmo piuttosto che cercare di controllarle o esserne controllato.
L’espansione passa attraverso l’osservazione delle emozioni dolorose come fossimo scienziati curiosi. Osservare senza giudicare permette di sganciarci dalla storia che i nostri pensieri ci raccontano e lasciarci il tempo e l’energia per volgere il nostro sguardo altrove.
Ovviamente la compassione per sé non è solo veicolata da atti grandiosi ma lo è soprattutto da piccoli gesti che ci rivolgiamo quotidianamente come una passeggiata, un bagno rilassante, un complimento per qualcosa che abbiamo è fatto, ossia tutti quei gesti che parlano di cura e affetto verso sé.

Resilienza: migliorarsi attraverso il cambiamento

La resilienza è l’abilità dell’individuo di ristabilire l’equilibrio spezzato da eventi di vita soggettivamente stressanti (es. lutti, traumi, malattie, ecc. ), quando cioè l’ambiente sottopone l’individuo a richieste che superano la normale prestazione psicofisica.
Questa abilità si sviluppa come un processo a quattro fasi:
– un evento di vita stressante produce emozioni come la paura, lo sconforto, lo smarrimento che fanno rimare la persona in un atteggiamento di passiva accettazione, in pratica la persona sopravvive e nulla di più;
– poi arriva il momento della riflessione circa le proprie risorse interne ed ambientali;
– il soggetto affronta quindi una fase adattativa durante la quale riprende a corrispondere alle aspettative dell’ambiente, come per esempio tornare al lavoro dopo un lutto nonostante qualche difficoltà e sintomo depressivo;
– ed infine arriva al momento in cui è pronto a ricominciare a vivere.
In questo processo il soggetto impara che può affrontare le difficoltà ridefinendo i propri obiettivi di vita. Raggiungendoli aumentano la sua percezione di autoefficacia e autostima che a loro volta danno impulso al processo di resilienza stesso.

Particolarmente importante è il modello di resilienza di Glenn E. Richardson. Secondo Richardson quando una persona subisce un trauma prova emozioni dolorose come la paura, il senso di perdita o di colpa e queste diventano motivazione a ristabilire l’equilibrio pre-trauma. Il caos conseguente al trauma induce il soggetto a riflettere su di sé e i propri obiettivi di vita. Non si tratta per ora di superamento del trauma ma di riorganizzazione tra abilità e obiettivi personali, cambiamenti avvenuti e richieste ambientali. Queste riflessioni permettono di accedere dalla fase dell’accettazione passiva a quella della ricostruzione. Se il soggetto però non può accedere a fattori protettivi interni e ambientali persiste in una condizione di malessere.
Durante la ricostruzione il soggetto persegue l’omeostasi bio-psico-spirituale, cioè un adattamento mentale, fisico e spirituale all’ambiente esterno per come esso si presenta al momento. Esistono secondo Richardson quattro esiti:
– Reintegrazione con ritorno all’omeostasi: viene recuperato l’equilibrio pre-trauma senza alcuna crescita del soggetto e delle sue doti di resilienza.
Reintegrazione resiliente con crescita: il soggetto supera la difficoltà attraverso un processo che favorisce la crescita e conoscenza di sé e delle doti di resilienza.
– Reintegrazione con perdita: quando il soggetto percepisce la perdita e non la forza per farvi fronte es. lutti irrisolti, dolori considerati insuperabili.
– Reintegrazione disfunzionale: il soggetto usa metodi non funzionali per gestire il dolore es. tossicodipendenza.
Secondo Richardson la rottura dell’omeostasi bio-psico-spirituale (prodotta da eventi di vita stressanti) è necessaria per attivare la resilienza che è sia componente che esisto dell’adattamento.
Un percorso di resilienza conclusosi negativamente può essere ripreso e portato avanti con successo qualora ci sia affidi a nuove risorse personali e ambientali, a nuove reinterpretazioni del trauma e strategie di fronteggiamento.

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